Non fidandoci dell’uomo, facciamo scegliere al mercato (e a lui non importa se tu muori di fame, a lui importerà il guadagno che ne deriva, è una macchina cieca nata per questo, e capace solo di questo, questo lo guiderà), non fidandoci dell’uomo rendiamo il mercato onnipotente e l’uomo inaffidabile; non fidandoci dell’uomo, perdiamo dignità e libertà, quel che rimane è un mercato cieco e crudele: cosa mi importa se la concorrenza mi renderà più ricco, se non renderà nessuno migliore?
Se il mercato, per sua norma interna, premia l’avidità, la concorrenza fra avidità?
L’avidà più meschina è quella più adatta a vincere, se non cambieremo direzione, a spese dell’uomo… Chi vive solo per guadagno come può chiamare poi, se stesso uomo?
Da collaboratori dell’Artefice, ne diventiamo traditori ingordi…
“Mio padre era commerciante, ma contro la sua volontà. Si vergognava di essere un commerciante. Anch’io, da bambino, quando avevo dieci, dodici anni, me ne vergognavo. Se qualcuno mi diceva “sono un commerciante” avevo pietà di lui; mi dicevo “ma come si può ammettere che lo scopo della sua vita sia quello di guadagnare del denaro?”.
Evidentemente sono cresciuto nel mondo moderno, ma non mi sono mai sentito a mio agio: il mio vero mondo è il mondo precapitalistico, del quale il mio bisnonno e quell’aneddoto sono un esempio. In fondo, mi sento così ancora oggi; mi sento straniero in un mondo il cui scopo è guadagnare il più possibile. Per me questo è piuttosto una perversione.
E. Fromm